Esistono libri che, prima di ogni altra cosa, prima di essere ben scritti, ben pensati, ben architettati fanno del bene al lettore. Sono, in una parola, taumaturgici, una categoria che normalmente sfugge alle catalogazioni dei letterati, difficili da accontentare perché di carattere diomeneguardi.
Ma che i pittori conoscevano bene: Cézanne mandava sempre un suo quadro, in prestito naturalmente, ad un amico malato perché era convinto che guardare un bel dipinto aiutava a guarire.
Garibaldi in Sicilia è il testo più taumaturgico che io conosca e questo potere di rimetterti in piedi è null'altro che un immenso entusiasmo dell'autore per la straordinaria impresa dei Mille, per Garibaldi soprattutto, per l'Italia amatissima e per gli italiani, che si trasmette dopo poche righe e smuove i precordi, e se giaci a letto ammalato ti alzi gettando via le bende come Lazzaro.
Trevelyan, lo storico più letto della sua generazione, era pienamente consapevole che stava raccontando una vicenda unica, uno di quei fatti che accadono una volta in un secolo, in cui tutto congiura a fin di bene, l'esatto contrario di quel che accade nella vita normale.
Di grande famiglia liberale era già diventato famoso scrivendo la storia del suo paese, una storia dei suoi abitanti alla ricerca e al ritrovamento della libertà, che faceva degli inglesi una popolazione anomala in un mondo quasi tutto assoggettato alla tirannide.
Ed ora anche gli italiani, dopo secoli di dominazione straniera, erano riusciti a conquistare la loro libertà in un modo così romantico, così drammatico e così coraggioso che nella sua prosa si sente tutta l'emozione di parlare di avvenimenti così straordinari che si svolgono nell'allora paese più bello del mondo.
In un momento in cui le sfortune politiche dell'Italia inducono, genericamente parlando, a a una sorta di rassegnato pessimismo, leggere il libro di Trevelyan fa lo stesso effetto e fa molto meglio del prozac.
Stefano Malatesta