Neri Pozza Editore | Domenico Quirico
 
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Domenico Quirico

Domenico Quirico è giornalista de La Stampa, responsabile degli esteri, corrispondente da Parigi e ora inviato. Ha seguito in particolare tutte le vicende africane degli ultimi vent’anni dalla Somalia al Congo, dal Ruanda alla primavera araba. Ha vinto i premi giornalistici Cutuli e Premiolino e, nel 2013, il prestigioso Premio Indro Montanelli. Ha scritto quattro saggi storici per Mondadori (Adua, Squadrone bianco, Generali e Naja) e Primavera araba per Bollati Boringheri. Presso Neri Pozza ha pubblicato Gli Ultimi. La magnifica storia dei vinti e Il paese del male.

I LIBRI

Guerra totale. La bancarotta bellicista

Domenico Quirico

«La guerra non è mai fatale, ma sempre perduta»: così Gertrude Stein nell’esergo in apertura di questo libro. Da reporter che è stato presente sui principali fronti di guerra del nostro tempo, Domenico Quirico conosce bene la verità di questa affermazione. Ogni guerra accade per decisione deliberata. Ogni guerra è perciò, secondo l’abusata citazione di von Clausewitz, una continuazione della politica con altri mezzi che presuppone sempre una qualche strategia di conclusione.
Ora, che cosa è la guerra in Ucraina? Una guerra di resistenza del popolo ucraino nel più generale confronto tra democrazie e tirannidi trucide? L’eterno Oriente asiatico contro l’eterno Occidente? Il tentativo di ricomporre la frattura spalancata dalla fine del comunismo e di riavviare la Storia? Oppure una colossale guerra del gas e del petrolio ben camuffata da stantii nazionalismi? E, soprattutto, qual è lo scopo della creazione di una furente opinione pubblica bellicista, propensa a dare mandato senza tentennamenti ai pochi decisori del confronto armato? La guerra in Ucraina appare, in queste pagine, come una bancarotta totale. Per Putin, il piccolo zar con le sue parole consunte, i suoi furori ideologici medievali, è la bancarotta dell’illusione di una vittoria breve, destinata a riaffermare unilateralmente e per decreto la Potenza russa. Per Zelensky, che insegue il mito della vittoria assoluta, la bancarotta del suo Paese, destinato a una miseria e distruzione dalle quali occorreranno lustri per uscire. Per l’Occidente, la bancarotta di un conflitto iniziato senza una strategia di conclusione, se non la nuda e semplice sconfitta del nemico. Una prospettiva di certo presente nelle guerre del passato, ma a dir poco insensata in una guerra in cui esiste la possibilità, dopo l’annessione formale del Donbass alla Russia proclamata dalla Duma, di un apocalittico non ritorno.

Attraverso pagine veementi, che mostrano la drammatica inadeguatezza di analisti, intelligence e governanti rispetto al compito che la Storia assegna loro, Quirico invita il lettore a riflettere su un conflitto in cui droni e artiglierie spazzano via in un baleno esseri viventi, giovani forti, pieni di vita e di speranze, mostrando quanto sia «fragile ed effimera la vita e quanto criminali siano coloro che per avidità, scombinate ideologie, fanatismo ci hanno costretto un’altra volta a ricordarlo».

Morte di un ragazzo italiano

Domenico Quirico

Il 23 aprile 2015 Barack Obama, in qualità di presidente e Commander in Chief degli Stati Uniti d’America, annuncia al mondo intero l’uccisione di Giovanni Lo Porto, il giovane cooperante italiano, per opera di un drone statunitense sul confine tra Afghanistan e Pakistan. Il giorno dopo il ministro degli esteri italiano illustra le presunte circostanze di quell’assassinio a un’aula del Parlamento completamente vuota. Qualche anno dopo la magistratura italiana dispone l’archiviazione delle indagini sulle reali cause del decesso di Lo Porto per assenza di collaborazione da parte delle autorità americane. Cala il silenzio totale, del governo, dei partiti, dell’opinione pubblica sulla morte di un ragazzo italiano.
Perché scrivere un libro su un delitto in cui si sa il nome dell’assassino? si chiede Domenico Quirico in apertura di queste pagine. A quale scopo, visto che il reo confesso è il primo presidente nero degli Stati Uniti, il paese che ha proclamato il diritto alla felicità? Un uomo così abile a sciorinare le sue virtù teologali e democratiche da ricevere il premio Nobel per la Pace? Domenico Quirico non ha mai incontrato di persona Giovanni Lo Porto. Ma lo unisce a lui qualcosa che è più di una stretta di mano o un sorriso di reciproca stima. Lo unisce il tempo, incomunicabile, del prigioniero, il fatto di sapere che oltre una certa soglia non c’è più niente da dire, che occorre soltanto stringere i denti con violenza. Lo unisce, insomma, il dolore che gli consente davvero, in queste struggenti pagine, di alzare la voce contro l’ingiustizia della sua morte e chiedere la punizione del Colpevole.

La sconfitta dell'Occidente

Domenico Quirico, Laura Secci

Da venti anni l’Occidente perde tutte le guerre, ogni tipo di guerra: guerriglie tradizionali, terroristiche, conflitti per procura o combattuti direttamente, guerre microscopiche e guerre grandi. Sconfitto da armate di fanatici in ciabatte ed eserciti con gli scarponi, l’Occidente mostra di essere del tutto incapace di affrontare il nuovo tipo di violenza organizzata del xxi secolo, in cui la distinzione tra guerra, crimine organizzato e violazione dei diritti umani si è diluita e spenta. Il risultato è che le certezze su cui gli Stati occidentali si fondano – la democrazia dei diritti, la società liberale, la globalizzazione – si sono ristrette, sgretolate, erodendo non soltanto le basi delle nostre società, ma la carta stessa del mondo. Dal Nord Africa all’Africa Nera, dalla Tunisia alla Nigeria musulmana, dalla Siria all’Iraq all’Afghanistan, i luoghi dove fino a qualche anno fa un occidentale poteva muoversi, visitare, commerciare senza problemi, sono diventati terre del silenzio e dell’odio.
Passando in rassegna i numerosi conflitti che hanno visto soccombere negli ultimi decenni l’Occidente, Domenico Quirico e Laura Secci mostrano, in questo agile libro, il pericolo più grande di questa sconfitta: la sua rimozione nel discorso pubblico. Si preferisce parlare di economia, di moda, di musica, di generi, mentre «l’indifferenza che è una forma della viltà ronza nei cuori come un motore».

Gli Ultimi. La magnifica storia dei vinti

Domenico Quirico
La Storia ha assegnato ad alcuni personaggi il compito, affascinante, crudele e immane, di liquidare o di scuotere dalle fondamenta costruzioni storiche secolari, possenti ideologie, imperi e regni che avevano quasi assorbito il mondo. Un compito tragico nel senso classico del termine: perché la maggioranza tra gli Ultimi si è caricata sulla schiena questo peso essendone pienamente consapevole. Tutti erano in qualche modo certi che, comunque avessero assolto l’impegno, sarebbero rimasti nella Storia con il marchio degli infami, dei vinti, di notai miserabili di una eredità dilapidata, di traditori di fedi che dovevano essere incrollabili.
Non c’è riconoscenza per gli Ultimi che sono sempre dei vinti agli occhi dei posteri. Eppure il Mondo Nuovo, che sorge sulle ceneri del Vecchio, spesso è opera loro.
Tanti i casi e le storie esemplari: da Dario, il fragile, umanissimo, disperato rivale di Alessandro, a Gorbaciov, tormentato e malaccorto affossatore dell’Impero rosso di Lenin e di Stalin; da Atahualpa, ultimo inca paralizzato dai presagi della fine a Pu Yi, che nacque imperatore nella città proibita e finì guardia rossa; da Romolo Augustolo, l’imperatore per conto di un padre che non voleva la porpora pur avendo il potere, a Benedetto XVI che scoprì all’improvviso che non si può guarire neppure la chiesa dall’ingiustizia e dalla stupida ferocia degli uomini.
Un libro affascinante, un grande racconto degli infami e dei vinti della Storia che invita a cercare nella sconfitta, nella decadenza e nell’oscurità del declino la luce e il vagito del Mondo Nuovo.

Il paese del male

Domenico Quirico, Pierre Piccinin da Prata
Nella storia della letteratura, numerose sono le pagine capaci di condurre il lettore davanti all’«ineffabile vergogna», al mistero di «incomprensibile e cieco dolore» del male.
Nulla però eguaglia per potenza narrativa le pagine di coloro che hanno realmente vissuto l’offesa del male; gli eventi, le azioni, i piccoli gesti in cui si manifesta; l’umiliazione, per dirla con Primo Levi, di poter morire «per un pezzo di pane» oppure «per un sì o per un no».
Il 6 aprile 2013 Domenico Quirico e Pierre Piccinin da Prata imboccano un sentiero pietroso che serpeggia tra le montagne e i ciliegi in fiore piantati sui contrafforti dell’Anti-Libano e penetrano in Siria. Sono in compagnia di coloro di cui vogliono narrare le gesta: i miliziani dell’Armata siriana libera, gli oppositori di Bashar Assad, i ribelli, i rivoluzionari. Al loro passaggio i petali bianchi si staccano dagli alberi e fluttuano nell’aria fresca della primavera.
Qualche giorno dopo, nei pressi della città di al-Qusser, in una notte buia in cui nulla sembra vivere, l’Armata siriana libera li consegna a un gruppo di incappucciati che, sparando raffiche di mitra, li trascinano sul loro pick up.
Seguono cinque mesi di strazio e di ira, di furia e rancore, di miserevole ingiustizia, resa ancora più tale perché inflitta da coloro che si credevano amici. Mesi trascorsi in stanzette sudice, in botole infami e luride prigioni, dove la luce è sempre accesa perché la voglia di dormire pesi tanto da far dimenticare ogni cosa; e dove il carceriere ordina di ripetere complicate parole arabe, mulinando il bastone, oppure si diverte a fingere di sparare alla tempia del prigioniero prima di andare a dirigere la preghiera, in prima fila, al suo Dio.
Mesi in cui si diventa non il Nemico da rispettare, ma il Cristiano da disprezzare, l’Occidentale da schernire con un riso stridente e lacerante; mesi in cui non resta che la nausea di appartenere al genere umano.
Le pagine che seguono sono la cronaca sconvolgente di questa prigionia. Sono pagine che colpiscono al cuore e, ad un tempo, insegnano qualcosa di fondamentale: che non possiamo volgere lo sguardo altrove se, non lontano da noi, l’orrore della guerra è penetrato a tal punto nell’animo degli uomini da trasformare un paese intero in una terra desolata in cui il male «dispiega tutti i suoi stati; l’avidità, l’odio, il fanatismo, l’assenza di ogni misericordia», e in cui «persino i bambini e i vecchi gioiscono ad essere cattivi».

Esodo. Storia del nuovo millennio

Domenico Quirico
Questo libro è la cronaca dei viaggi fatti in compagnia dei migranti nei principali luoghi da cui partono, e in cui sostano o si riversano. In questo senso, è il racconto in presa diretta dell’Esodo che sta già mutando il mondo e la storia a venire. Una Grande Migrazione che ha inizio là dove parti intere del pianeta si svuotano di uomini, di rumori, di vita: negli squarci sterminati di Africa e di Medio Oriente, dove la sabbia già ricopre le strade e ne cancella il ricordo; nei paesi dove tutti quelli che possono mettersi in cammino partono e non restano che i vecchi.
Termina nel nostro mondo, dove file di uomini sbarcano da navi che sono già relitti o cercano di sfondare muri improvvisati, camminano, scalano montagne, hanno mappe che sono messaggi di parenti o amici che già vivono in quella che ai loro occhi è la meta agognata: l’Europa, il Paradiso mille volte immaginato.
In realtà, il Paradiso è soltanto l’albergo fatiscente di civiltà sfiancate e inerti, destinate, come sempre accade nella Storia, a essere prese d’assalto da turbini di uomini capaci di lasciarsi dietro il passato, l’identità, l’anima.
Da Melilla, l’enclave spagnola che si stende ai piedi del Gourougou, in Marocco – dodici, sonnolenti chilometri quadrati cinti da un Muro in cui l’Europa è, visivamente, morta – fino alla giungla di Sangatte, a Calais, dove la disperata fauna dei migranti macchia, agli occhi delle solerti autorità francesi, le rive della Manica con la sua corte dei miracoli, tutto l’Occidente, dai governanti ai sudditi, sembra ingenuamente credere di poter continuare a respirare l’aria di prima, di poter vivere sulla medesima terra di prima, mentre «il mondo è rotolato in modo invisibile, silenzioso, inavvertito, in tempi nuovi, come se fossero mutati l’atmosfera del pianeta, il suo ossigeno, il ritmo di combustione e tutte le molle degli orologi».

Il Grande Califfato

Domenico Quirico
Il giorno in cui, per la prima volta, parlarono a Domenico Quirico del califfato fu un pomeriggio, un pomeriggio di battaglia ad al-Quesser, in Siria. Domenico Quirico era prigioniero degli uomini di Jabhat al-Nusra, al-Qaida in terra siriana. Abu Omar, il capo del drappello jihadista, fu categorico: «Costruiremo, sia grazia a Dio Grande Misericordioso, il califfato di Siria… Ma il nostro compito è solo all’inizio... Alla fine il Grande Califfato rinascerà, da al-Andalus fino all’Asia».
Tornato in Italia, Quirico rivelò ciò che anche altri comandanti delle formazioni islamiste gli avevano ribadito: il Grande Califfato non era affatto un velleitario sogno jihadista, ma un preciso progetto strategico cui attenersi e collegare i piani di battaglia. Non vi fu alcuna eco a queste rivelazioni. Molti polemizzarono sgarbatamente: erano sciocchezze di qualche emiro di paese, suvvia il califfato, roba di secoli fa.
Nel giro di qualche mese tutto è cambiato, e il Grande Califfato è ora una realtà politica e militare con cui i governi e i popoli di tutto il mondo sono drammaticamente costretti a misurarsi.
Questo libro non è un trattato sull’Islam, poiché si tiene opportunamente lontano da dispute ed esegesi religiose. È soltanto un viaggio, un viaggio vero, con città, villaggi, strade e deserti, nei luoghi del Grande Califfato. Parte da Istanbul e si conclude in Nigeria, fa tappa a Groznyj in Cecenia e nelle pianure di Francia, nel Sahel e in Somalia. Parla di uomini, delle loro storie, delle loro azioni e omissioni. Mostra come al-Dawla, lo stato islamista, esista già, poiché milioni di uomini ogni giorno gli rendono obbedienza, applicano e subiscono le sue regole implacabili, pregano nelle moschee secondo riti rigidamente ortodossi, vivono e muoiono invocandone la benedizione o maledicendone la ferocia.
Nondimeno, come Christopher Isherwood approdato nel 1930 a Berlino, con la sua potente narrazione, Domenico Quirico diventa, in queste pagine, «una macchina fotografica» con l’obiettivo così aperto sulla cruda realtà della nostra epoca, che ne svela il cuore di tenebra meglio di mille trattati e saggi.
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