Neri Pozza Editore | Giorgio Ferrari
 
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Giorgio Ferrari

Giorgio Ferrari, inviato speciale ed editorialista, è stato per un trentennio corrispondente diplomatico e di guerra per varie testate prima di approdare ad Avvenire, dove dal 1994 a oggi ha coperto le principali vicende internazionali, dall’Iraq al Libano, all’Egitto, alla Libia, dalle elezioni presidenziali americane alla lunga stagione del terrorismo islamico. Fra le sue pubblicazioni, il reportage Cuba senza Castro (2007), sul crepuscolo del castrismo, Ombre Rosse (2010), sull’affaire Rosenberg e lo spionaggio atomico, e I muri che ci separano (2019), sulla nascita e la caduta del Muro di Berlino. È inoltre autore de Le Cinque Giornate di Radetzky e Gli ultimi giorni di Radetzky e della rievocazione storica della nascita del Don Giovanni di Mozart (La sera della prima).

I LIBRI

Il naufragio di Šostakovič

Giorgio Ferrari

La mattina 28 gennaio del 1936 Dmitrij Šostakovič – che in quel momento si trova ad Archangelsk – sfoglia febbrilmente l’edizione della Pravda. A pagina 3 c’è un editoriale non firmato dal titolo Caos invece di musica. Per la maggior parte dei lettori quel titolo non vuol dire nulla. Per lui invece è una pietra tombale sulla sua carriera di enfant prodige della musica sovietica. Due giorni prima era andata in scena a Mosca al Teatro Bol’šoj una replica dell’opera che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Si tratta di Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, quattro atti ispirati all’omonima novella di Nikolaj Leskov. Allo spettacolo del Bol’šoj sono presenti Molotov, Mikojan e Ždanov, l’arbitro dell’ortodossia culturale comunista. Ma soprattutto è presente Stalin, incuriosito da quella musica che tutto il mondo onora. Inaspettatamente, al terzo atto Stalin abbandona il palco. Non era mai accaduto prima. É un naufragio, ma Šostakovič lo capirà due giorni più tardi. L’editoriale della Pravda è spietato e nessuno dubita che sia vergato dallo stesso Stalin, che preferisce Mozart e Beethoven alle astruserie della modernità: ≪Fin dalle prime battute il pubblico e assalito da un’ondata di sonorità volutamente confuse e discordanti, un formalismo che accarezza il gusto morboso del pubblico borghese con una musica inquieta e nevrastenica≫.
Da quel momento il “nemico della patria” Šostakovič attenderà ogni notte davanti alla porta di casa l’arrivo di una Zil nera per essere tradotto alla Lubjanka e fucilato, come accadrà al suo amico regista Mejerchol’d e al maresciallo Tuchačevskij, l’eroe dell’Armata Rossa che ha avuto l’incauta idea di difenderlo. Per il resto della vita, Šostakovič resterà segnato da quell’incubo che lo trasforma – come egli stesso riconoscerà – ≪in una marionetta, un pupazzo di carta appeso a un filo≫. Ma Šostakovič e solo uno dei tanti precipitati nel buio abisso del terrore staliniano. Insieme a milioni di anonimi innocenti in quei terribili anni sparirono nelle purghe di Stalin tante voci illustri, da Osip Mandel’štam a Isaak Babel, mentre altri chinavano il capo ridotti al silenzio, come Anna Achmatova, Aleksandr Blok, Vasilij Grossman, Maksim Gor’kij, Marina Cvetaeva, Michail Bulgakov, Boris Pasternak, Sergej Ėjzenštejn, o venivano costretti all’esilio o indotti a un gesto fatale come Vladimir Majakovskij. Questa e la loro storia. 

Uccidete il re buono

Giorgio Ferrari

Monza, domenica 29 luglio 1900, ore 20.30. La gente si accalca attorno al campo sportivo, dove si sta svolgendo un torneo a squadre. Tutti attendono il re, che sarà presente al momento della premiazione. Nessuno immagina che l’orologio della Storia stia scandendo implacabile i minuti. Umberto I ha appena finito di cenare e prende posto sulla carrozza reale. Il protocollo vorrebbe che fosse coperta, ma il re ha preteso di viaggiare senza la capote. Il caldo torrido lo ha costretto a rinunciare anche alla maglia d’acciaio che porta abitualmente sotto il gilet.
Alla stessa ora, seduto al Caffè Romano di via Carlo Alberto, c’è un uomo con un revolver in tasca che ha trascorso nervosamente il pomeriggio tra un gelato e l’altro. Si chiama Gaetano Bresci, è un anarchico, ed è venuto da lontano. Anche lui sta aspettando il re.
La cerimonia è terminata. Il re si alza in piedi. C’è ressa attorno a lui. L’aiutante di campo gli fa strada, la scorta che lo accompagna scruta senza troppo convincimento i volti di chi si assiepa attorno al sovrano. Bresci estrae il revolver dalla tasca della giacca e fa fuoco tre volte. Tutti i colpi vanno a segno.
«Non ho ucciso un re, ho ucciso un’idea», dirà l’anarchico. Per l’Italia uscita dalle guerre risorgimentali è la fine dell’innocenza, come per l’Europa lo sarà, quattordici anni dopo, l’uccisione di un altro futuro sovrano a Sarajevo. Dietro a quel gesto, ci sono trent’anni “sbagliati” del nuovo regno: gli scandali, le mortificate ambizioni coloniali, i socialisti e i cattolici, la mancata riforma agraria. E quelle maledette cannonate fatte sparare dal generale Fiorenzo Bava Beccaris contro i milanesi che chiedevano pane. Per l’Italia è l’inizio del secolo breve e maledetto. 

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