Neri Pozza Editore | Pierre Péju
 
  • Condividi :

Pierre Péju

Pierre Péju narratore, filosofo del Collège international de philosophie, ha scritto La Vie courante, La Petite Fille dans la forêt des contes, Naissances. Con La piccola Chartreuse (Neri Pozza 2004), romanzo tradotto in quattordici lingue, ha ottenuto un grande successo internazionale.

I LIBRI

La piccola Chartreuse

Pierre Péju

Alle quattro e mezza, in un quartiere qualsiasi di una qualsiasi città della Francia, i bambini escono dalle elementari. È «l'ora delle mamme» che, in un brusio di gioia squarciato da grida infantili, si chinano, immense, apprensive verso i loro bambini. Nel giocoso fuggifuggi generale, nella compatta massa dei corpi materni, ogni bambino è in grado di riconoscere il calore unico e familiare, la mano in cui cacciare la propria, la guancia su cui posare frettolosamente un bacio.
All'interno della schiera di bambini che si disfa, la piccola Éva è la sola a rallentare il passo. Come ogni sera, dubita di poter distinguere la madre nella massa in attesa, poiché sa che solo quando tutte le mamme si saranno disperse, svanite ai quattro angoli della strada, soltanto allora Thérèse, sua madre, apparirà… la sigaretta sulla punta delle dita, il sorriso come a elemosinare un po' d'indulgenza.
Mentre la signora con il grembiule blu richiude la cancellata della scuola, Éva aspetta sotto il portico, sul marciapiede ostile. Lunghi minuti d'attesa, a scrutare le persone che s'avvicinano e a scoprirle tutte così insopportabilmente estranee, poi si staccherà dal muro a cui è addossata e partirà, correndo per la città con la cartella zeppa di libri che le colpirà le reni, sui marciapiedi scivolosi, tra i fari delle auto che le accecheranno gli occhi inondati di lacrime.
Mezz'ora più tardi, sarà investita dal furgoncino del libraio Etienne Vollard. E a Vollard sembrerà che quelle esili membra, quella carne pallida e dolce sia corsa diritta davanti al suo mezzo.
Per questo, quando Éva entrerà in coma, a Vollard, al grande e grosso e impacciato Vollard, non resterà che un compito: tentare di ridestare la bambina parlandole nell'unico modo che il libraio conosce, attraverso i libri che ha letto, le magiche parole che sono rimaste impresse nella sua mente e che tante volte l'hanno aiutato nella vita.
«Libro bello e sensibile che colpisce al cuore per la sua semplicità» (Denis Gombert), La piccola Chartreuse (così Vollard chiama la bambina, che è divenuta muta come la Chartreuse, la grande montagna) è un magnifico romanzo sul potere delle parole e sulla loro resistenza alla morte e al silenzio.

Il sorriso dell'orco

Pierre Péju

È l’estate del 1963 a Kehlstein, un piccolo borgo tedesco che coi suoi chalet di legno, le sue case gialle, verdi e rosa, le sue chiese barocche rallegra una valle cinta da monti e boschi. Paul Marleau, sedici anni, francese, vi è appena giunto per perfezionare il tedesco studiato al liceo. È un ragazzo riservato che non si separa mai dai suoi taccuini da disegno, sui quali riversa gran parte dei suoi impeti adolescenziali. Il suo sguardo non trascura perciò nulla di ciò che lo circonda, dagli abeti giganteschi che svettano nei boschi ai fiori che troneggiano sui balconi.
Sono trascorsi pochi giorni e Kehlstein già lo incanta e lo sgomenta. Il borgo sembra una grande sfera trasparente nella quale ogni cosa è vista con gli occhi di un bambino. I campi colorati a pastello, le chiesette che paiono giocattoli, le panchine di legno e le fontane così perfette, gli uomini che calcano cappelli decorati con piccole piume, le donne che se ne vanno in giro con graziose maniche a sbuffo e colletti di pizzo… E poi tutto quel folclore di cuoio, corno, velluti neri; un trionfo di verde e di rosso, di bianche e candide pettorine ricamate, di merletti, di orecchini d’argento; un odore di acqua di Colonia e di cipria che si mescola a quello del caffè e delle brioche. E, infine, lei… Clara Lafontaine, la ragazza che, in una bella domenica di luglio, si sveste completamente, la camicetta e i pantaloni buttati tra le canne, e scivola nuda nelle acque del lago, la pelle bianca che si scioglie nei bagliori della luce…. La bella Clara che, in un cupo giorno di pioggia, gli confessa che lì, a Kehlstein, nel fitto del bosco, nel punto esatto in cui suo padre, il dottor Lafontaine, si reca ogni giorno con un mazzo di rose, un suo commilitone durante l’ultima guerra, un certo Walter Moritz, è stato un trovato seduto ai piedi dell’albero, gli occhi aperti, lo sguardo sperduto, e i figli stretti nell’incavo delle due braccia… morti, soffocati.
La guerra è finita da diciassette anni a Kehlstein, ma è chiaro che le sue ombre aleggiano sull’apparente innocenza delle cose e i passati orrori si nascondono proprio lì, dove la gente, sdraiata sull’erba, ride, beve e sogna…
Straordinario «romanzo d’ombra e di luce» (L’Express), Il sorriso dell’orco ci conduce su quella sottile soglia dell’esistenza dove «l’umanità e la sua barbarie, l’amore e l’incommensurabilità del male» (Libération) si tengono per mano.

Newsletter

Resta aggiornato sulle novità e non perderti neanche un'anticipazione

Compila di seguito il campo inserendo la tua mail personale per ricevere la nostra newsletter