Quattro chiacchiere con Tommaso Avati
L'autore de Il silenzio del mondo ha risposto a qualche domanda, raccontandoci il suo nuovo romanzo La ballata delle anime inutili

La ballata delle anime inutili prende spunto da un fatto realmente accaduto nel 1938, quando, in un piccolo paese della Puglia, un’intera comunità si convertì all’ebraismo proprio mentre venivano promulgate le leggi razziali. Come è venuto a conoscenza di questa parentesi della storia? Vuole raccontarci qualcosa di più?
Vent’anni fa qualcuno mi raccontò questa storia meravigliosa e poco nota e la prima cosa che pensammo fu che fosse perfetta per un film. Presi qualche appunto e scrissi un piccolo soggetto. Poi, come spesso accade in questo mondo, i progetti cambiano, le cose prendono direzioni diverse, e di quella idea mi dimenticati completamente; fino due anni fa, quando iniziai a scrivere questo libro e, dopo un po’ che mi arrovellavo, capii che quella idea era esattamente l’ingrediente magico che ancora mi mancava
Anche il suo precedente romanzo, Il silenzio del mondo, iniziava con l’avvento del fascismo. È un periodo storico che l’appassiona?
La dittatura, la guerra, la fame, le sciagure, la tragedia e poi la rinascita, il tentativo di ricostruire un’esistenza, di reinventare un mondo ma anche un sé, una vita interiore, un modo per continuare ad essere felici, a credere in qualcosa cosa c’è di più affascinante? Non esiste contesto più proficuo e ricco di spunti per un narratore
La fede ha un ruolo chiave nella vita dei suoi personaggi, non sempre positivo. Quand’è che la religione può trasformarsi in uno strumento pericoloso?
La fede ha avuto, nel passato più che oggi, un ruolo chiave nella storia dell’uomo, per questo è così presente nei miei romanzi storici soprattutto. Ma questa fede spesso esibita, non è effettivamente sempre fonte di bene, non ha sempre un’accezione positiva. A volte, come le cose più belle, rischia di corrompersi, d trasformarsi, di diventare superstizione, di portare all’esaltazione, di condurre a ciò cui la spiritualità dovrebbe essere contraria per definizione, alla convinzione ad esempio che esistano individui migliori di altri, alla convinzione che esistano popoli detentori di verità; in una parola insomma: all’intolleranza.
Il romanzo è ambientato in un’Italia rurale e violenta, in cui i personaggi lottano contro la sensazione di essere inutili e l’unica via d’uscita sembra trovarsi nella compagnia di qualcuno con cui condividere questo fardello.
Quanto, secondo lei, riuscire a comunicare è importante per darsi un senso e per dare un senso a quello che ci circonda?
E’ assolutamente fondamentale. Quando tutto ci abbandona, quando nulla rimane, quando ci rendiamo conto che il nostro stesso ruolo nel mondo viene messo in discussione, non resta altro che poterne parlare, poter “dire” questo nostro dolore, poterlo sentire uscire dalle nostre bocche, vederlo trasformarsi, prendere forma e farsi parola. E poter scoprire in questo modo che forse non siamo soli. Ecco, quando null’altro rimane, questo poter parlare con qualcuno che ci comprende, qualcuno in cui rispecchiarsi, può rappresentare una consolazione immensa
Ricorre lo scontro tra numeri e parole. Secondo il personaggio di Sofia, dodicenne che non riesce a contare oltre le dita di una mano, i primi sono più importanti delle seconde, poiché anche se le parole le usiamo per parlare, i numeri ci servono per vivere.
Lei è dello stesso avviso?
Io, come Sofia, sono da sempre discalculico: ho sempre avuto difficoltà coi numeri, e a tutt’oggi faccio ancora molta fatica ad eseguire i calcoli più semplici. Quando ero bambino – allora non si conosceva nemmeno questa patologia - sono cresciuto in un mondo in cui i numeri incombevano su di me in modo terrificante, minacciandomi continuamente dei peggiori rimproveri, sia a scuola che a casa. Quel bambino credeva che i numeri fossero tutto, che da essi dipendessero le sorti del mondo, che valessero molto più delle parole. Oggi sono convinto del contrario. Ed è forse per questo che ho scelto di fare proprio lo scrittore.

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