Anteprima: il primo capitolo di Romeo e Rosalina di Natasha Solomons

Leggi l’estratto del primo capitolo di “Romeo e Rosalina”

Il funerale fu celebrato all’alba, quando madonna Amelia Capuleti aveva lasciato questo mondo da poco piú di un’ora. Rosalina seguiva il feretro, sconsolata per la perdita. Più volte il padre e il fratello furono costretti a rimproverarla e a ordinarle di restare indietro perché il cadavere, quello della sua amata madre, era contagioso.
Gli unici facchini che avevano accettato di portare la bara erano luridi e fetidi, poco piú che mendicanti, e avevano acconsentito soltanto in cambio di un favoloso compenso. Rosalina non aveva avuto il permesso di lavare la salma. Era arrivato un prete con un mazzetto di erbe premuto sulla bocca a gettare acqua santa sul viso della defunta prima di svignarsela. Non c’era stato tempo per trovare un sudario dorato o purpureo in cui avvolgerla. Nessuna lamentatrice funebre era presente. Nessuno dei parenti era andato a casa Capuleti e nessuno seguiva la famiglia alla tomba. Era un corteo funebre vergognoso. Gli altri Capuleti e i loro vicini si nascondevano dietro porte sprangate, annusando mazzolini di fiori e arance guarnite con chiodi di garofano per scongiurare il contagio, oppure offrivano preghiere frenetiche e confessioni frettolose. Soltanto Rosalina, suo padre – il quale piangeva senza ritegno, appoggiandosi di peso al braccio della figlia – e il fratello di lei, Valenzio, accompagnavano la defunta.
«Meritavi di piú» mormorò Rosalina alla madre.
Un facchino si fermò di scatto per grattarsi l’inguine pulcioso e si lasciò sfuggire goffamente la maniglia della bara.
«Idiota! Disgraziato!» ruggì Masetto Capuleti. Soltanto il timore che lasciasse cadere il feretro gli impedì di prenderlo a calci.
Rosalina dissimulò un sorriso. Sua madre lo avrebbe trovato divertente: aveva sempre gioito degli scherzi perfidi. Due cani randagi seguivano il misero gruppetto, forse nella speranza di avere qualche avanzo. Rosalina incluse anche loro nel conto, in modo che il corteo potesse essere considerato abbastanza numeroso da apparire quasi rispettabile, a dispetto della peculiarità di coloro che lo componevano. Non era dispiaciuta per l’assenza dei vicini, ipocriti e bugiardi tutti quanti. Sua madre aveva inviato loro regali di compleanno, aveva asciugato le loro lacrime e aveva pulito loro il sedere quando erano bambini, tuttavia non li aveva mai amati. Amava me, e io sono qui. A questo pensiero, Rosalina si morse un labbro per non piangere e sentì sapore di sangue.
Il servizio funebre alla tomba di famiglia fu breve. Terrorizzato, il frate lanciava continue occhiate alla bara, recitando le preghiere tanto in fretta da impappinarsi. Rosalina notò il sudore lustro intrappolato fra i rotoli di grasso del suo collo, nonostante il freddo della tomba. L’ambiente era immerso nell’ombra perché non c’era stato tempo per acquistare candele di cera adeguate alla condizione di madonna Amelia. Dalla cripta già aperta per accogliere la bara proveniva un puzzo di antiche ossa putrefatte che si fondeva con il disgustoso fetore di morte e decomposizione, sempre più intenso. La scala che scendeva dalla buia porta spalancata sembrava condurre al mondo infero. Rosalina avrebbe voluto gridare, aggrapparsi alla madre come da bambina si era aggrappata alle sue gonne. Com’era possibile che Amelia Capuleti stesse per essere calata in quell’oscurità? Stava per sprofondare fra quei miasmi, in un pozzo tenebroso che non poteva vedere. Avrebbe avuto paura. Anche se avesse avuto una candela, cosa sarebbe successo quando si fosse tutta consumata nel buio? In verità, Rosalina sapeva che sua madre non poteva piú provare paura, né dolore, né amore. Il suo posto era lí, fra gli spettri dei Capuleti morti da lunghissimo tempo.
Accorgendosi che suo padre continuava a piangere, aggrappato al suo braccio, con la testa appoggiata alla sua spalla, Rosalina gli accarezzò i capelli per confortarlo e provò una punta di risentimento. Suo padre non era gentile né tenero di cuore, e di solito la ignorava. Adesso, però, esigeva la sua attenzione e le imponeva il suo lutto, proprio nel momento in cui lei, invece, desiderava rimanere sola con il proprio dolore.
I suoi genitori erano stati come una coppia di candelieri, comprati insieme e collocati alle opposte estremità sulla mensola del camino, perfetti nella loro lucida simmetria. Ora restava unicamente suo padre, che nella solitudine appariva scombussolato, sparuto e smarrito. Lei gli prese una mano, sentendone le ossa fragili sotto la pelle trasparente come pergamena. Allora lui le strinse le dita, le baciò le nocche e cercò di pronunciare qualche parola, invano: gli sfuggì soltanto un singhiozzo.
«Non parlare» esortò Rosalina, cercando di rassicurarlo come se fosse un bambino, consapevole che per il momento i loro ruoli erano invertiti.
Nonostante i suoi difetti – che Rosalina, una volta tanto, resistette all’impulso di elencare – suo padre aveva amato sua madre. Il loro matrimonio era stato benedetto dalla gioia, e il dolore di lui era vero, straziante. Per questo lei ne aveva compassione.
Come se avesse bisogno di urinare, il frate spostava continuamente il peso da un piede all’altro. Perplessa e afflitta, la famiglia lo fissava. Finalmente Valenzio prese alcune monete dalla propria borsa. Il frate le intascò e mormorò una frettolosa benedizione. «Chiedo scusa… Debbo seppellire altre anime sventurate…»
Non sono anime, pensò Rosalina. Non sono altro che gusci spezzati e putridi. Le loro anime sono volate via da questo ossario.
Tornato a casa, il desolato gruppetto trovò la ronda in attesa davanti al portone su cui già era stata dipinta la croce rossa, simbolo della peste. Il capo delle guardie salutò Masetto con un cenno della testa, tenendosi a distanza, con il viso coperto da un mazzolino di fiori, e dichiarò: «Una persona della vostra famiglia è stata contagiata, quindi rimarrete chiusi in casa per venti giorni. Alcune guardie resteranno qui per impedirvi di violare l’ordinanza. Che il Signore abbia pietà di voi».
Rosalina vide il padre scrollare le spalle, scoraggiato. Era inutile discutere. Si poteva soltanto aspettare e sperare. Ritirandosi nell’andito, Rosalina sentì inchiodare le assi a porte e finestre come s’inchiodavano i coperchi sulle bare.
In seguito, guardando dalla finestra ogni giorno, vide dipingere la croce rossa sulle porte delle altre case della strada, mentre la pestilenza si diffondeva in tutta la città. Ogni pomeriggio una processione con reliquie sacre percorreva le strade per scacciare l’epidemia, con i frati che intonavano preghiere spandendo incenso, e i cittadini che spalancavano le finestre e uscivano sui balconi per unirsi alla litania.
Rosalina osservava il padre vagare per casa, vestito soltanto della camicia da notte che ingialliva, simile a uno spettro diurno, mormorando preghiere per la moglie defunta e incespicando, anche di notte, al buio, insonne, con un lume in mano. Eppure era incapace di parlargli per consolarlo. Se non fosse stato per lui, sua madre non sarebbe morta. La compassione che provava nei suoi confronti era intrisa di afflizione e pervasa di rabbia. In breve tempo tutta la sua vita si ridusse alla sua stanzetta e al suono incessante delle campane della basilica. Sette volte al giorno per venti giorni batterono per esortarla alla preghiera. Lei non pregò.
Il ventesimo giorno la ronda tornò con i sanitari a esaminare tutti gli abitanti della casa per individuare eventuali segni di peste.
Una donna entrò nella sua stanza e le ordinò di spogliarsi. «La vostra carnagione è più scura di quella di vostro fratello e di vostro padre» commentò.
«Sono figlia di mia madre» ribatté Rosalina, stanca di quelle considerazioni.
«Siete comunque un bel fiore, anche se le bellezze brune non sono di moda».
Irritata, Rosalina pensò che sua madre non avrebbe tollerato simili osservazioni. «No, non è così. Era nei tempi antichi che le brune non erano considerate belle. La bellezza di mia madre ha cambiato la moda del giorno». Lei aveva la pelle dorata come quella di Amelia. In estate diventava scura come terracotta. Suo fratello era piú simile al padre: il colorito di entrambi ricordava la carne di vitello. Lei era felice di somigliare alla madre: aveva qualcosa di lei che nessuno poteva rubarle. La donna si accoccolò per scrutare le sue parti piú intime. «Non vedo niente sulla schiena, né all’inguine, e neppure sotto le braccia o le mammelle. Non hai segni nemmeno sul collo. Non sei stata contagiata».
«E Caterina?»
La donna evitò di rispondere. «Chiedi della serva prima che di tuo padre!»
Rosalina scrollò le spalle.
«Siete tutti sani. La casa può essere riaperta» annunciò la sanitaria.
Per la prima volta in venti giorni, Rosalina sorrise.
«Non rimarremo a Verona» annunciò Masetto Capuleti. «Qui non c’è piú niente per noi. Ci trasferiremo in collina fino a quando questa maledetta peste sarà passata».
Simile a un ago acuminato e scintillante come un gioiello, la collera trafisse il cuore di Rosalina. Sua madre aveva supplicato e lusingato il marito per convincerlo a lasciare la città, trasferirsi dove l’aria era più sana e sfuggire a un nemico che non si poteva vedere né combattere. Le dimore di tutti i notabili erano ormai vuote. Anche i pochi, ultimi servi fuggivano, intanto che i cadaveri abbandonati nelle strade diventavano sempre più numerosi. Eppure quel ramo della famiglia Capuleti era rimasto a Verona perché Masetto non aveva voluto rinunciare ai propri affari. Amelia adesso non sarebbe stata nella tomba, se fossero partiti due mesi prima, come lei stessa aveva chiesto.
«Sí, dovreste andarvene» convenne Valenzio. «È un ottimo suggerimento». La sua famiglia era fuggita in collina molte settimane prima e adesso era al sicuro, lontano dalla peste, in una villa simile a un’isola in un mare di ondeggianti campi di grano. Eppure lui non si era opposto al padre e non aveva portato lassú la madre e la sorella, da cui pure era stato pregato e implorato. Le persone che amava – le sue gemme preziose – erano già protette.
Con il furore che minacciava di divampare in lei, Rosalina abbassò gli occhi, incapace di guardare il padre e il fratello.
Sbagliando, Masetto interpretò il gesto come modesta sottomissione, un comportamento insolito da parte della figlia. Con un sospiro, le accarezzò una spalla, senza accorgersi che lei si sforzava di non scrollarla per respingerlo. «Sí, Amelia lo avrebbe desiderato» dichiarò, rinfrancandosi. «Andremo a piangerla in campagna. Prepara soltanto l’essenziale. Partiamo subito».
Mia madre era essenziale, pensò Rosalina, arrabbiata e addolorata. Sapeva che molte altre fanciulle piú giovani di lei, che non aveva ancora sedici anni, avevano perduto entrambi i genitori, ma lei si considerava orfana anche di padre.
Con il nuovo mantello del lutto che gli gravava sulle spalle, Masetto guardava ciò che aveva intorno senza vedere nulla. Pensava soltanto alla moglie. Quando finalmente il suo sguardo si posò sulla figlia, fu con perplessità mista a irritazione.
Stringendo i pugni, Rosalina si conficcò le unghie nelle palme pallide. Il dolore le rammentò che era ancora presente, che non era scomparsa alla vista, anche se suo padre ora lo desiderava.

Seduta in un angolo della propria camera da letto, con le ginocchia raccolte sotto il mento, Rosalina dichiarò di aver preparato tutto. In fondo al baule aveva messo il proprio liuto e alcuni libri: Dante, Petrarca, Boccaccio, e il piú prezioso, cioè un malconcio volume delle storie di Ovidio.
Caterina non era convinta. «E le calze? Le gonne? Uno scialle?»
Rosalina scrollò le spalle. «Con i libri e la musica ho tutto quello che mi serve».
«Musica? Non dovete neppure pensare di poter suonare mentre siete in lutto. Ci sono limiti persino per voi, mia signora».
Rosalina infilò nel baule una corda di riserva per il liuto, nell’eventualità che una si spezzasse. «Non mi farò sentire da nessuno».
«Svergognata…» brontolò Caterina, ancora preoccupata, affrettandosi a gettare indumenti nel baule.
Intanto Rosalina recuperò il libro di Dante e sedette sul pavimento per rileggerne le visioni dell’aldilà. Quando si chiese dove fosse sua madre, ebbe un brivido d’inquietudine, come se fosse uscita da un bagno nel fiume in un giorno d’estate proprio nel momento in cui le nubi oscuravano il sole. Il paradiso dantesco non le sembrava molto radioso. L’eternità trascorsa in simile compagnia minacciava d’essere tediosa. Le uniche altre possibilità erano gli affascinanti tormenti fra i peccatori, oppure il gelo e l’oblio del purgatorio.
«Non dovreste leggere. Le donne che leggono si ammalano di febbre, lo sanno tutti». Rosalina baciò la serva e le pizzicò la paffuta guancia adorata.

Si lasciarono alle spalle la città a bordo di un carro sobbalzante, prima seguendo la strada lastricata poi la sterrata. Ascoltando il tintinnare dei finimenti, Rosalina guardava le groppe ondeggianti e vellutate dei cavalli, che odoravano di sudore e di fieno. Caterina li seguiva, lustra in viso per la fatica. File di cipressi svettavano nel cielo luminoso e azzurro come lapislazzuli. Eppure la peste aveva devastato anche la campagna: i campi erano incolti e infestati di erbacce; piccoli grappoli grigi e immaturi pendevano da una vigna piegata sotto il sole. Due donne cercavano miseramente di raddrizzare i pali caduti e di estirpare i convolvoli che soffocavano le viti. Non era rimasto nessun uomo ad aiutare con i lavori pesanti.
Sfiorate dalle ruote del carro, l’olmaria e la consolida maggiore diffondevano nell’aria i loro profumi. Tutti desiderano rimedi contro la peste: persino la natura, decise Rosalina.
Alla guida del carro, Valenzio bastonava le spalle muscolose dei cavalli quando pensava che s’impigrissero. Il padre sedeva accanto alla figlia, con le spalle scosse di quando in quando dai singhiozzi.
Invece Rosalina non piangeva. La rabbia, un sassolino asciutto e duro incuneato dentro di lei, aveva consumato tutte le lacrime.
In un campo abbandonato, un toro smagrito montava una mucca annoiata che continuava a ruminare il bolo. Mentre il carro li aggirava, Rosalina li osservò con interesse. Cedendo alle sue implorazioni e alle sue insistenze, sua madre aveva finalmente promesso di parlarle dell’unione fisica fra marito e moglie. Due giorni prima che Amelia si ammalasse avevano visto in strada due cani in calore: la femmina che mugolava e grugniva, il maschio che si strofinava freneticamente. Poi, quando i due animali erano rimasti incastrati, uggiolanti e goffi nel rigagnolo e presi a calci dai passanti, Rosalina aveva voluto sapere se anche uomini e donne restassero bloccati in modo cosí doloroso e degradante. Allora la madre le aveva assicurato che ciò non accadeva e che presto le avrebbe spiegato quello che aveva bisogno di sapere. Ma quel momento non era arrivato, perché lei si era ammalata ed era morta. Rosalina si domandava se qualcuno l’avrebbe mai istruita.
Dopo avere frugato nella giacca, Masetto le porse una catenina d’oro che aveva assorbito il calore del suo corpo. «Tua madre voleva che avessi questa».
Era la catenina che Amelia aveva indossato ogni giorno. Rosalina la prese. Il pendente era un grosso smeraldo verde, scintillante come l’ala di una libellula, fulgido al centro, incastonato in oro luccicante. Le era sempre sembrato una parte di lei, come un dito, o gli occhi castani, o l’incisivo scheggiato. Lo annusò, sperando di sentire ancora il profumo della madre: rosa canina e salvia. Invece aveva assorbito quello acre della pelle sporca di Masetto e quello agro del suo spesso farsetto di cuoio. Se la mise al collo.
«Ti ha lasciato anche una lettera». Di nuovo il padre si frugò nel farsetto per trarne una pergamena piegata.
Per un attimo Rosalina la guardò. Amelia non aveva mai imparato a leggere e scrivere. Senza dubbio aveva dettato la lettera al marito, che dunque ne conosceva già il contenuto. «Cosa dice?»
Con la lingua dardeggiante di un serpente, Masetto si leccò le labbra. «Dovresti leggerla». Le sue lacrime si erano asciugate. Aveva l’aria furtiva di un cane che evitasse lo sguardo del padrone dopo essere stato sorpreso a rubare galline.
Di scatto Rosalina afferrò la lettera, poi, nel leggerla, fu pervasa dall’orrore. «Dice che dovrò andare in convento… È una menzogna! Non lo voleva! Lo volete voi! Volete risparmiarvi la mia dote!»
Stordita da un dolore acuto e assordante, Rosalina tardò un momento a capire che suo padre l’aveva schiaffeggiata.
«Dimentichi che sei mia e che posso fare di te ciò che voglio. Comunque no, non è una mia decisione. È davvero la volontà di tua madre».
Sentendo sapore di sangue in bocca, Rosalina lo fissò, e mentre lui a sua volta la fissava, capí che era sconcertato dalla sua stessa violenza. Ammesso che quella fosse davvero la volontà di Amelia, era evidente che lui non ne era affatto dispiaciuto. Una dote sarebbe stata assai costosa. Si pagava anche per mandare una figlia in convento, e si pagava caro se si desiderava che la figlia vivesse bene, con cibo in abbondanza e una cella comodamente arredata, però era pur sempre poca cosa rispetto al costo rovinoso di una dote.
Massaggiandosi l’orecchio dolente, Rosalina fissò la lettera. Le numerose manifestazioni d’amore erano tutte di pugno del padre. Quanto gli era costato annotare quei frammenti di tenerezza, estremo lascito di una donna morente? Consapevole di non poterne avere altri, Rosalina li divorò. Ti ha preso tutto, fino all’ultimo brandello, pensò. Ho ricevuto per suo tramite persino le tue ultime volontà. Era come fissare una visione di Amelia attraverso il fumo soffocante di un falò. Forse lui le aveva trasmesso quelle frasi affettuose soltanto per indurla a pensare che sua madre avesse voluto davvero chiuderla in convento… Eppure un pensiero ancora piú tremendo lambiva la mente di Rosalina come una gelida marea di primavera.
E se Masetto Capuleti avesse detto la verità? Se la sua adorata madre avesse voluto che lei, la sua unica figlia, fosse segregata in un convento?
Le lacrime le punsero gli occhi. Era condannata, se non all’inferno, al purgatorio.

Quando arrivarono alla villa, sulle colline sopra Verona, Rosalina si ritirò subito nella propria camera. Sdraiata sul letto di legno, osservò le travi argentee del soffitto. Un topolino corse lungo una di esse e si fermò, guardingo, sopra la sua testa. La camera aveva l’odore di sempre: umidità antica e vecchi fuochi. Il vento solleticava le gronde e i travetti scricchiolavano come un bastimento sulle onde. Fuori, in cortile, Caterina pompava acqua dal pozzo, con un sibilo e uno schizzo ogni volta che cadeva nel secchio. Tutto era come sempre e niente lo era.
Rosalina pensò al convento di Mantova cui era destinata. Era isolato dalla città, appollaiato sulla cima di una collina come un cappello troppo piccolo. Aveva mura di arenaria grigioviola delle Alpi, spesse un metro. Era una fortezza per l’anima. Di notte nessun cittadino osava avventurarsi nei dintorni. Si sussurrava che in tempi remoti le monache dell’ordine fossero state capaci di volare e di evocare gli spiriti, non sempre sacre presenze.
Da bambina Rosalina aveva accompagnato la madre a visitare le sue sorelle in convento. Gentilmente era stata persuasa a entrare in parlatorio, dove le grate isolavano le monache dai pericoli carnali del mondo. I visitatori premevano il viso contro il freddo metallo e infilavano le dita nei vani per tentare disperatamente di accarezzare le amate figlie e sorelle consacrate a Dio. Mentre Rosalina piangeva di angoscia e di paura, sua madre l’aveva avvolta in una coperta, poi l’aveva infilata nella ruota e l’aveva spinta all’interno. Le zie monache l’avevano presa e portata di nascosto nel grembo del convento, poi l’avevano abbracciata fino a farla smettere di piangere e le avevano donato dolciumi e leccornie di ogni genere. La ruota era progettata per introdurre uova, dolci o biscotti, anziché nipotine, tuttavia era spesso usata per scopi illeciti. Molte altre volte, dopo la prima visita, Rosalina era stata portata furtivamente in convento per essere vezzeggiata dalle zie: le sue guance infantili, simili a pasta appena lievitata, erano state coperte di baci.
Quando ripensava a quelle visite, Rosalina non ricordava preghiere né penitenze, perché tutte queste cose le erano state nascoste. Invece le sorelle di sua madre le avevano riservato tutto quello che aveva potuto interessarla o divertirla: alcuni gattini appena nati con la pelliccia ancora umida di parto e gli occhi chiusi; un passerotto caduto dal nido nel chiostro, custodito in una scatola e nutrito di vermi affinché diventasse abbastanza forte per poter volare. Sua madre aveva avuto bisogno di sentirsi raccontare quelle visite piú e piú volte, nei dettagli, finché Rosalina si era stancata di ripetersi. Adesso però si rendeva conto che così si erano impresse indelebilmente nella sua memoria, a colori vividi come i vetri di Murano.
Le visite erano continuate per alcuni anni. Dapprima Rosalina non aveva capito che la madre e le zie rischiavano l’anima e la scomunica introducendola segretamente in convento e violandone cosí l’immacolata sacralità. Tuttavia era certa che se fossero state interrogate, le zie avrebbero risposto senza esitare che valeva la pena pagare qualunque prezzo, anima compresa, per i suoi gomiti paffuti, in cui restavano impresse le impronte delle dita, e per le sue ginocchia rotonde e sporche.
Durante l’ultima visita, ormai troppo grande, Rosalina era rimasta incastrata nella ruota e soltanto dopo mezz’ora di sforzi era stata liberata. Non aveva mai piú potuto abbracciare le zie.
Capiva per quale motivo suo padre desiderava per lei la vita monastica: era privo di affetto. Tutti si deliziavano a dirle che erano rimasti sbalorditi quando lui aveva sposato per amore una donna con una piccola dote e una bellezza anomala. Neppure dopo vent’anni la sorpresa suscitata dalla loro unione si era attenuata.
Purtroppo per la figlia, Masetto aveva esaurito con la moglie la propria riserva di affetto. Era grato di avere un figlio e non sapeva cosa farsene di lei. La bellezza che lo aveva incantato in Amelia lo irritava in Rosalina. Le ordinava di non restare seduta al sole per troppo tempo, altrimenti le sue guance si sarebbero scurite ancora di piú.
Ma lei non lo ascoltava.
Una donna doveva avere un marito, oppure chiudersi in convento. Rosalina sapeva che suo padre aveva sempre creduto in questo adagio. Non aveva mai saputo, però, che vi avesse creduto anche sua madre. Perché lei non le aveva mai rivelato le proprie intenzioni? Forse per vigliaccheria o per mancanza di tempo? O forse aveva desiderato confidarsi con lei, e la sua morte repentina non lo aveva permesso? Per paura dei vapori malsani, il padre e il fratello avevano impedito alla figlia di entrare nella camera della madre malata.
Con un sospiro, Rosalina capì che ormai non aveva più alcuna importanza non conoscere i dettagli e i terrori o le gioie della vita coniugale. Non ne avrebbe mai avuto alcuna esperienza.
Seduta sul letto, vide il sole al tramonto calare sul cortile, gonfio e rosso come un bubbone da incidere. Aveva la gola secca e dolente. Prese da un vaso sopra il cassettone un ramo di lavanda raccolto l’anno precedente, odoroso di tempi piú felici, e lo sbriciolò per l’angoscia, il dolore e la rabbia.
Arrabbiarsi con i morti era disperato e inutile. Rosalina afferrò il vaso e lo scagliò a fracassarsi nel focolare con uno spruzzo di cenere grigia. Cedendo al dolore per la prima volta da settimane, urlò. Aveva il viso bollente e le costole doloranti come se fosse stata presa a calci. Tuttavia piangere non le dava sollievo, e neppure conforto.
Calmandosi, ascoltò lo zampettare del topolino sulle travi e una civetta che lanciava il suo verso alla luna. Andò alla finestra aperta. Tutte le fattorie erano ormai immerse nell’oscurità. Guardò la volta del cielo cosparsa di stelle, mentre la brezza sulle guance era come un balsamo. Chiuse gli occhi.
Quando li riaprì, vide una lampada accesa sulla collina, nella villa dei Montecchi. Se fosse stata quella di un’altra famiglia, la luce gialla le avrebbe offerto un poco di consolazione e lei si sarebbe sentita meno sola al pensiero che un’altra anima infelice era desta a quell’ora macabra e blasfema. D’improvviso la lampada si spense nel buio.
Per un attimo Rosalina ebbe la sensazione che nessuna luce si sarebbe accesa mai piú. Si sentí stringere il busto da una catena invisibile, probabilmente simile alla fune con cui l’Inquisizione legava gli eretici. E se fosse morta? Non voleva rimanere nascosta fra le mura del convento. Voleva il mondo, con tutte le sue glorie, i suoi dolori e la sua corruzione. Come osavano privarla di tutto questo?
Non lo avrebbe permesso. Avrebbe gioito di tutti i piaceri possibili fino all’ultimo momento, prima di essere rinchiusa. Sputò sul pavimento e sigillò la propria decisione con un giuramento a sé stessa.

All’alba il sole sorse di nuovo e Rosalina si alzò. La rugiada fresca lavava l’erba, luminosa e orribilmente indifferente alla sua sventura. Le api solerti cercavano il polline fra i fiori cadenti di gelsomino e un picchio martellava per procurarsi la colazione. Caterina arrivò in camera con un vassoio e persuase Rosalina a mangiare un po’ di pane e a bere un po’ di latte. Non disse nulla del suo viso gonfio e delle palpebre arrossate. Quando fu vestita, le allacciò i nastri neri ai polsi e le posò sulle spalle un nero mantello a lutto.
Con le mani premute sulle orecchie per attutire le proteste della cameriera, Rosalina uscí e attraversò in fretta i campi per andare da Livia, la moglie di suo fratello, confinata a letto per una gravidanza, la settima.
All’arrivo della cognata, Livia era nella camera al primo piano, con una balia e i tre figli superstiti. Sul momento si mostrò felice di vedere Rosalina, poi rammentò la tragedia e si rattristò. Con fatica si alzò a sedere sul letto e allungò un braccio per prenderle una mano. «Oh, mia carissima Rosalina… Che l’anima di Amelia possa riposare in paradiso con la Vergine e tutti i santi e mille preghiere! Era troppo buona per questo mondo… E la sua torta di mandorle era insuperabile!»
Taciturna, Rosalina annuí. Il timore di scoppiare di nuovo a piangere le impediva di parlare.
Livia le strinse la mano con forza sorprendente, anche se appariva debole e smorta. «Ho perduto mia madre, tutte le mie sorelle e tre figli. Con il tempo il dolore non si attenua, però ti abituerai a sopportarne il fardello».
Rosalina l’abbracciò e le baciò una guancia pallida, respirando un odore malsano di lenzuola sporche e olio di rosa.
Distesa nel letto, Livia aveva gli occhi infossati, le vene azzurre simili a confluenze di fiumi sul seno già gonfio e in apparenza dolente, il ventre rotondo e teso sotto la camicia da notte.
«Mangi abbastanza?» chiese Rosalina, sollevata nel pensare alle sofferenze altrui.
Livia sorrise. «Tuo fratello mi assilla con infinite leccornie».
«Sí, ma tu le mangi?»
«Ci provo, ci provo…»
Rosalina guardò la balia intenta ad allattare il figlio piú piccolo di Livia, un maschietto paffuto di quasi un anno, che le succhiava un capezzolo avvizzito. «Sembra utile e brava».
Livia annuí. «Sí, provvede a tutti con poca fatica». Abbassò furtivamente la voce. «Era una sanitaria».
La balia sentí e si girò a guardarle. «È meglio cosí. La vita vince la morte».
La porta si aprí. Madonna Lauretta Capuleti varcò la soglia e scrutò la stanza affollata come se le appartenesse e tutte le persone che vi si trovavano fossero pezze di seta fra cui scegliere la piú adatta per una veste. Nel silenzio si sentí soltanto il succhiare del bimbo paffuto al capezzolo della balia. Rosalina s’impettí e Livia cincischiò la coperta. Entrambe temevano Lauretta come una serpe velenosa. Era sposata al fratello maggiore di Masetto, il vecchio signore dei Capuleti, il capo famiglia.
«Dov’è Giulietta?» domandò madonna Capuleti. «Pensavo che fosse qui a giocare con i bambini».
«Non piú, zia» rispose Livia. «È rimasta qui per poco piú di un’ora con la sua balia e si è divertita molto. Poi sono andate via».
Madonna Capuleti continuò a scrutare la stanza, come se Giulietta potesse essere nascosta sotto la coperta e le lenzuola del letto, oppure dietro il paravento.
«Mi dispiace non avere incontrato mia cugina Giulietta» intervenne Rosalina. «Mi piacerebbe rivederla».
«Dovrebbe essere qui…» Sua zia corrugò la fronte. «Com’è irritante…» Poi si rese conto di essere stata scortese e aggiunse, per rimediare: «Mi dispiace per tua madre. Amelia era una donna virtuosa. Che possa riposare con la Vergine nella pace eterna. Quando entrerai in convento onorerai la sua memoria».
Con il ventre scombussolato da un groviglio di dolore, Rosalina fu incapace di parlare.
Per un momento madonna Lauretta Capuleti tacque, pensosa, prima di chiamare una serva e ordinarle di portare un po’ di vino. «Mia nipote non si sente bene». Improvvisamente spaventata, si girò a guardare Rosalina. «Per il lutto, non per la peste, vero?»
«Sapevate già che voleva mandarmi in convento?» domandò Rosalina.
Perplessa, madonna Capuleti sedette scomodamente sul bordo del letto. «Cos’altro avrebbe potuto desiderare per te, carissima nipote? Tuo fratello non smette di generare eredi. Alla tua famiglia non ne servono altri. Non puoi portare il nome di tuo padre e lui non ha bisogno di farti figliare. Di quale utilità potresti mai essere?»
Rosalina si passò la lingua arida sulle labbra secche come carta. «Ma voi farete maritare Giulietta…»
«È l’unica figlia che Dio ci ha donato. Tutte le nostre speranze sono riposte in lei, anche se è soltanto una sciacquetta».
Rosalina tacque. Era troppo giovane per ricordare la sorella di Giulietta, stroncata da una malattia, e i suoi fratelli, nati morti. Si girò a guardare la cognata, sdraiata nel letto con il ventre gonfio. Partoriva ogni anno e affidava i figli alla balia affinché Valenzio potesse montarla di nuovo e ingravidarla piú in fretta. A quanto pareva, i bambini erano utili, mentre lei non serviva a niente.
«Cosa volevi, Rosalina?» riprese madonna Capuleti, sporgendosi in avanti con autentico interesse. «Hai soltanto quindici anni. Speravi forse in un marito?»
Anziché rispondere, giacché non si sentiva obbligata a farlo, Rosalina pensò ai propri genitori. Non sapeva se Amelia avesse davvero amato Masetto, né se avesse considerato necessario l’amore. Lui l’aveva amata abbastanza per entrambi. A volte, quando si era bevuto molto vino a tavola, Amelia lo prendeva in giro, come nessun altro aveva mai osato fare. Senza dubbio aveva vissuto con lui momenti di felicità, simili a gocce di rugiada sulla tela di un ragno: istanti delicati e fugaci, eppure non meno preziosi.
Prima di essere reclusa, Rosalina era decisa a conoscere qualcosa dell’amore, anche senza un marito.

I volumi
Natasha Solomons

Romeo e Rosalina

Un untelling femminista e potente dell’opera più conosciuta di Shakespeare, narrato da una voce sovversiva e dimenticata: la voce di Rosalina.
Traduzione di Alessandro Zabini
2023, pp. 352, € 19,00
Altre edizioni
  • E-book
    2023, pp. , € 9,99
Natasha Solomons

Romeo e Rosalina

Un untelling femminista e potente dell’opera più conosciuta di Shakespeare, narrato da una voce sovversiva e dimenticata: la voce di Rosalina.
Traduzione di Alessandro Zabini
2023, pp. , € 9,99
Altre edizioni
  • I Narratori delle Tavole
    2023, pp. 352, € 19,00
Ultimi post